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Bioetica Riassunto - Turoldo - 21-22 - unive
Bioetica Sp. (FM0030)
Università Ca' Foscari Venezia
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Bioetica sp.
Introduzione
Per Kant “giudicare” significa sussumere sotto un aspetto universale, questo può essere identificato anche come una norma o una legge che si distingue in norma universale giuridica e norma universale morale (etica): la prima si riferisce a quegli imperativi che fanno rispettare una determinata regola, mentre la seconda fa riferimento a quegli imperativi dove oltre a far rispettare la regola, viene detto anche come questa deve esser rispettata.
Kant suddivide il giudizio e lo distingue in due tipologie diverse:
Giudizio determinanteil particolare viene sussunto all’interno dell’aspetto universale in maniera meccanica. (formazione top-down)
Giudizio riflettentesi parte dal particolare e si va a cercare un aspetto universale specifico. (bottom-up) In questo caso, dunque, possono esserci più aspetti universali o nessuno. Questo tipo di giudizio si basa soprattutto sull’immaginazione – sia riproduttrice che produttrice – quindi, dal nulla si viene a creare un aspetto universale che può portare a delle scelte. Essendo che non vi è un aspetto universale meccanico, vi può essere l’opzione di introdurre anche una nuova regola (illusione, elusione o confronto con terzi).
Si parla di dilemmi morali quando:
- Non esiste un aspetto universale applicabile
- Più aspetti universali applicabili
- Più aspetti universali in conflitto tra loro
- Si può interpretare la legge
- Particolarità del singolo caso difficile da interpretare
Un classico esempio di dilemma morale studiato e analizzato da molti è quello presentato da S. Agostino in una sua lettera di risposta al fratello per la questione “scovare gli eretici fingendosi eretici”: un amico si nasconde da un assassino in casa vostra, l’assassino giunge e vi domanda se sapete dove egli si stia nascondendo, cosa rispondete?
S. Agostino con questo dilemma vuole portare alla luce la distinzione tra mendax e mentiens: il primo è un bugiardo incallito, mente per il semplice gusto di mentire, il secondo si ritrova costretto a mentire per non causare mali più grandi. S. Agostino li condanna entrambi, nonostante ammette che uno abbia aggravanti maggiori rispetto all’altro, fa distinzione tra vizio e necessità. Da questo esempio, sarà famoso il dibattito tra Kant e Constant, in cui il primo afferma che la verità è assoluta e va rispettata in qualsiasi caso, il secondo invece fa distinzione tra avere diritto o meno alla verità. Divertente sarà vedere come Kant, nonostante la sua teoria assolutista, si ritroverà a ricorrere all’elusione per obbedire a un ordine, senza però porsi dei veri vincoli (rif. Re di Prussia).
Il caso Welby
Piergiorgio Welby, in età giovanile, si accorge di avere una malattia ereditaria molto grave (SLA) e una volta divenuto adulto prende una decisione molto importante. Egli fa un patto con sua moglie in
cui se fosse giunto il momento in cui si fosse aggravato ancor di più, lei non avrebbe dovuto chiamare alcun soccorso e lo avrebbe dovuto lasciar morire. Ella lì per lì accetta e gli promette che non sarebbe intervenuta. Tuttavia, quando effettivamente quanto immaginato diventò realtà, la moglie, nel panico di non poter più rivedere suo marito, infrange la promessa e chiama i soccorsi. Piergiorgio viene salvato, ma poiché la malattia si era aggravata, dovette restare in ospedale intubato e mantenuto in vita attraverso delle forti terapie farmacologiche. Welby non se la prese con la moglie per non aver rispettato quanto promesso, aveva compreso che un conto era fare discorsi in maniera astratta, quando ancora stava bene, un conto era quando effettivamente accadeva il tutto. Il desiderio della moglie di tenerlo in vita fu più forte di quello di rispettare la promessa fatta con lui. Grazie a quell’intervento, egli poté vivere per altri dieci anni, circa, in cui si occupò di redigere alcuni romanzi sulla sua situazione. Trascorsi questi anni, egli prende una decisione: poiché oramai era più un vegetale che un essere umano, chiede che gli si venga staccata la spina.
Questa decisione separa diversi medici e la moglie, poiché chiunque avrebbe staccato la spina si sarebbe sentito in qualche modo responsabile. Il medico di base fu il primo a rifiutarsi, dato che
egli, oltre per una questione morale, pensa anche al penale (infatti, in medicina e nelle forze
dell’ordine, se si ostruisse in qualche modo un soccorso, le persone colpevoli verrebbero condannate da due aggravanti: omissione di soccorso e omicidio, dato che astenersi è come se stessero facendo loro stessi l’atto. In quanto portatori di una carica, hanno l’obbligo di agire sempre per la giusta causa).
Il caso della morfina nel Dopoguerra
Un altro esempio simile è dato dal caso della morfina. Nel dopoguerra i medici si accorsero che le terapie a base di morfina causavano più morti per via di alcuni problemi respiratori che la terapia stessa causava.
La domanda che tutti si posero fu: come bisogna agire, quindi? (questo è un esempio di giudizio riflettente) Il Papa Pio XII individuò nel pensiero di S. Tommaso D’Aquino un’importante argomentazione:
Dalla difesa personale possono seguire due effetti, il primo dei quali è la conservazione della propria vita; mentre l’altro è l’uccisione dell’attentatore. Orbene, codesta azione non può considerarsi illecita, per il fatto che con essa s’intende di conservare la propria vita: poiché è naturale per ogni essere conservare per quanto è possibile la propria esistenza. Tuttavia, un atto che parte da una buona intenzione può diventare illecito, se è sproporzionato al fine. Se quindi uno nel difendere la propria vita usa maggiore violenza del necessario, il suo atto è illecito. Se invece reagisce con moderazione, allora la difesa è lecita 1.
Nel caso di Papa Pio XII e l’uso della morfina, se il dolore fosse diventato eccessivo, allora il medico poteva ricorrere all’uso del narcotico, in caso contrario si sarebbe potuto evitare tranquillamente.
La menzogna nella comunità greca e cristiana
Il mondo greco non era ostile al concetto di menzogna. Ulisse, per esempio, è considerato il più grande dei bugiardi. Egli, non volendo combattere a Troia, si finse infermo e mentì sulle sue condizioni. Agamennone, Menelao e Palamede vollero accertarsi della sua effettiva infermità e un giorno escogitarono e misero in atto il piano in cui gli misero il figlio Telemaco davanti all’aratro.
1 STh II-III, 64, 7, co.
Michel De Montaigne (1533 - 1592): scrive che il bugiardo distrugge ogni nostro scambio e dissolve tutti i vincoli della società. Considerazioni che diventeranno centrali in Kant. La menzogna distrugge la società, la fiducia e fa venire meno i vincoli e le promesse. Non ha senso neppure il linguaggio, se si diffida da quel che “l’altro” dice.
Montaigne fa anche un ragionamento religioso: il bugiardo da prova di disprezzare Dio e allo stesso
tempo gli uominiÈ codardo nei confronti dell’uomo, in quanto teme di dire la verità, ed è audace
nei confronti di Dio, in quanto trasgredisce i comandamenti.
Ugo Grozio (1583 - 1645): in “ Prolegomeni al diritto della guerra e della pace ” riprende il discorso di Montaigne secondo cui la menzogna mette a rischio i fondamenti della convivenza altrui. All’interno dell’opera fa riferimento ad una mutua obbligazione al vero, sostenendo che la menzogna lede sempre il diritto alla conoscenza di colui al quale è diretta la comunicazione. Se si diffondesse la menzogna, farebbe perdere di senso il linguaggio stesso.
Kant (1724 - 1804): CRITICO per eccellenza della menzogna. Le sue considerazioni le riprende in parte dai discorsi di Montaigne e Grozio. Tuttavia, Kant non arrivò immediatamente a delle posizioni così radicali, ci arrivò a tentoni. Infatti, nelle sue lezioni di etica tenute inizialmente in facoltà durante il 1775/1781, era solito tenere discorsi che erano più simili a quelli di S Agostino (erano più flessibili). Disse: [citazione del prof, non reperita online] “Ci sono casi eccezionali in cui la menzogna può essere giustificata. Nella misura in cui vengo costretto con una violenza, che viene esercitata nei miei confronti per farmi confessare qualcosa, e poiché le mie affermazioni risulterebbero in un uso illecito e non posso comunque salvarmi tacendo, la menzogna rappresenta in questo caso un mezzo di difesa”. Per Kant, strappare via del denaro e strappare via una confessione, erano due azioni definibili equivalenti: non vi era alcun caso in cui una menzogna fosse ammessa, tranne nel caso in cui una mia dichiarazione fosse estorta e che l’altro ne facesse un uso improprio.
Idea molto diversa rispetto allo scritto del 1797 intitolato “ Sul presunto diritto di mentire per amore dell’umanità ”, dove il filosofo s’irrigidisce e afferma che [citazione del prof, non reperita online] “la veridicità è un dovere che va considerato quale base di tutti i doveri fondati sul contratto, la cui legge, se si ammettesse anche la più piccola eccezione, sarebbe resa vacillante e inservibile”. Viene dunque meno il contratto sociale, (un sacro precetto della ragione incondizionatamente obbligante e non soggetta ad alcuna limitazione legata alle circostanze), l’essere veridico in tutte le dichiarazioni.
Constant (1767 - 1830): la prospettiva rigida di Kant viene messa in discussione da Benjamin Constant. Sono così agli antipodi che si riferiscono l’un l’altro con “ il filosofo tedesco ” e “ il filosofo francese ”. Fecero questo per marcare, forse, un certo distacco ed estraneità l’uno dall’altro. Entrambi si soffermano sull’episodio proposto da S. Agostino: per Kant, non sarebbe comunque lecito mentire all’assassino che chiede informazioni circa la sua potenziale vittima.
Constant, invece, non accetta la sua conclusione e ne trae una propria: per lui è vero che la società verrebbe distrutta se tutti mentissero, ma afferma altresì che questa verrebbe comunque distrutta se tutti affermassero il vero per qualsiasi situazione. Questo perché l’amico tradito da chi afferma il vero agli assassini subirebbe un torto, si verrebbe quindi meno nei confronti dei vincoli di amicizia e sociali che ci lega a lui. Venendo meno ai vincoli, si verrebbe a creare una situazione in cui tutti comincerebbero a dubitare e a sospettare le parole altrui per un eventuale tradimento (ergo, società distrutta). Conflitto interno: la società non sta in piedi né nella totale menzogna, né nella totale verità.
Queste considerazioni vengono trascritte nello scritto del 1797: “il principio morale, che dire la verità sia un dovere se fosse preso in maniera assoluto e isolato, renderebbe impossibile ogni tipo di
società”.il principio per cui dire sempre la verità su tutto mantenga viva la società (Kant), per
Constant la distrugge. È però altresì vero che rifiutare di dire la verità porterebbe, per Constant, comunque alla sua distruzione. Questo perché tutti i fondamenti della morale verrebbero sconvolti. Bisogna cercare la modalità di applicazione del principio e per arrivare a questa, bisogna definire tale principio.
Per Constant è importante la questione de “chi ha diritto alla verità?”. Infatti, in base al caso bisognerebbe capire se la persona che ci si trova davanti e ci pone la domanda ha diritto a sapere la verità, in quanto quest’ultima è un dovere ed essendo tale, capiamo che sia inseparabile dal concetto di diritto. Cito:
Dire la verità è un dovere. Che cos’è un dovere? L’idea di dovere è inseparabile da quella di diritto: un dovere è ciò che, in un individuo, corrisponde ai diritti di un altro. Là dove non ci sono diritti, non ci sono doveri. Dire la verità è dunque un dovere solo in rapporto a coloro che hanno diritto alla verità. Ora, nessun uomo ha diritto ad una verità che nuoccia ad altri 3.
Feyerabend (1924 - 1994): anch’egli si esprime sul dilemma dell’amico di S. Agostino. Anch’egli riflette sull’idea kantiana del dovere assoluto di dire la verità. Egli è più duro nei toni contrari rispetto a Constant. Afferma che Kant costruì una caricatura (mostruosa) di quello che significa essere umano e la usò come giustificazione per essere crudele, senza nessun sentimento di rammarico, ma anzi al contrario con la convinzione di aver fatto la cosa giusta.
Secondo Feyerabend, i filosofi sono grandi artisti nel trovare meravigliose ragioni per azioni crudeli. L’esempio che pone per mettere alla berlina Kant è il seguente:
si ha davanti a sé una donna morente, tutta la sua felicità risiede in suo figlio, il quale è finito in carcere a sua insaputa. La madre soffre moltissimo e sa bene di essere in punto di morte. Chiede ‘ che ne è di mio figlio? Dove si trova ora? ’.
Come si dovrebbe procedere secondo quanto presentato? Bisognerebbe procedere dicendole la verità, facendo in modo che la nostra anima sia ‘pulita’, ma che ella abbandoni il mondo nella disperazione, oppure le si dice che sta bene?
Per Kant, la disperazione della donna non è da tenere in considerazione se paragonata al benessere dell’umanità nel dire la verità. Per Feyerabend, questo è invece in tutto e per tutto un concetto “mostro” costruito dal filosofo tedesco. Sostiene, infatti, che nessuno dall’altra parte del mondo si ritroverà in una situazione più-o-meno agiata nel venire a sapere che si è deciso di dire la verità alla madre ed esser così crudele con lei.
L’episodio tra Kant e il Re di Prussia
È interessante vedere come Kant stesso ad un certo punto della sua vita si ritroverà a venire meno i preconcetti dettati dalla sua stessa filosofia di verità assoluta. Sarà infatti al centro di un episodio in cui mentirà al suo stesso re per poter venire meno quanto promesso. La peculiarità è che nonostante farà ricorso alla menzogna, riuscirà a tenere comunque fede al suo punto di vista sulla teoria dell’assoluto dovere di dire la verità.
3 B. Constant, Le reazioni politiche. Gli effetti del Terrore in I. Kant, B. Constant, La verità e la menzogna. Dialogo sulla
fondazione morale della politica, Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 211-
non si vuole determinate conseguenze, allora si deve procedere in un certo modo) vs imperativo categorico (si rispetta il dovere per il dovere di rispettarlo)
Se nel testo “ Critica alla ragion pura ” viene criticata la ragione teoretica in quanto pura, nel testo “ Critica alla ragion pratica ” si ha l’esatto contrario, in cui il testo stesso è costruito in base ad uno schema opposto rispetto al primo. Quest’ultimo, infatti, critica la ragion pratica in quanto impura. Essa è tale quando è condizionata da elementi sensibili.
Per Kant non bisogna proprio farsi condizionare da nulla, nemmeno dai rapporti intersoggettivi e affettivi. Devo dire la verità, non importa se questa mette in pericolo un proprio caro (considerati da molti filosofi dei dilemmi disumani).
Esempio del proprio figlio e di un bambino estraneo che annegano nello stesso istante e se ne deve salvare solo uno.
I comunitaristi lo criticano aspramente. Essi sottolineano l’importanza per la vita morale delle relazioni intersoggettive e l’impossibilità di essere del tutto disincarnati per esercitare uno sguardo morale puro. Tra questi vengono ricordati: Charles Taylor, Hegel (“ Radici dell’io ”), MacIntyre, Sandel etc.
I due casi di fratelli che si affacciano al concetto di verità:Unabomber e Whitey
Bulger (1° forum)
Per poter affrontare al meglio il dilemma sulla menzogna e i due casi proposti per questo forum, ho deciso di documentarmi ulteriormente per poter comprendere quanto più possibile le decisioni che sono state fatte e quali processi mentali vi siano stati dietro.
Ammetto sin da subito che mi sono documentata maggiormente sul caso dei fratelli Kaczynski, rispetto al caso dei fratelli Bulger, perché sono riuscita a reperire la miniserie documentario disponibile su Netflix “Manhunt: unabomber”.
Una delle peculiarità che subito mi intrigò per quel che concernette David, fu che inizialmente non seppe quale fosse la soluzione migliore da mettere in atto. Lui stesso ammise più volte che nonostante notasse delle somiglianze stilistiche tra il manifesto di Unabomber, pubblicato sul Washington Post, e delle vecchie lettere del fratello, non era totalmente sicuro che queste fossero una prova abbastanza schiacciante per denunciarlo. Decise, quindi, di appellarsi al suo legale e confrontarsi per trovare la soluzione migliore. Insieme stabilirono che quest’ultima fosse quella di inviare la lettera in maniera confidenziale e facendo rimanere David nell’anonimato. Quando l’FBI analizzò inizialmente la lettera, senza la supervisione del profiler Fitzgerland, ritenne che non vi fossero le somiglianze menzionate da David e classificò il file come non importante alle indagini. La reazione di David fu di sollievo, perché nonostante avesse seguito l’etica morale kantiana del dovere per il dovere, aveva comunque a cuore suo fratello e la sua incolumità (e, per quanto ritenesse suo fratello “particolare”, non riusciva ad immaginarsi che quest’ultimo fosse in grado di compiere i delitti per cui era ricercato Unabomber).
Quando però il profiler rianalizzò le lettere e scoprì che si trattava della medesima persona, contattò David e (quasi) lo costrinse a denunciare ancora una volta il proprio fratello. David richiese l’anonimato, ma l’FBI fece comunque trapelare la notizia e si ritrovò direttamente coinvolto nel caso. È dunque vero che David agì inizialmente secondo la filosofia kantiana di ripercorrere la via della verità, ma è altresì vero che dopo la cattura del fratello Ted, David iniziò una lotta mediatica in cui cercò di convincere le persone che suo fratello soffrisse in realtà di una schizofrenia paranoide (cosa mai dimostrata). Quindi, si potrebbe dire che David in quella situazione decise di mentire,
muovendosi secondo le teorie e le filosofie comunitariste, in cui decise di porre l’importanza sulla sua relazione fraterna con Ted e quindi a ritrovarsi impossibilitato dall’essere del tutto disincarnato dalla situazione (come invece sostiene Kant ne “Critica alla Ragion Pura”) per poter perseguire la via della morale pura, e dunque della verità.
Questa decisione, la vedo più in linea con quanto affermato da S. Agostino dove, nel De Mendacio, introduce rispetto ai soliloquia la dimensione dell’utilitas con la domanda “Esiste una bugia onesta”?. David, decidendo di mentire nell’affermare che suo fratello soffrisse di schizofrenia paranoide, adotta la terza soluzione proposta dal filosofo, ovvero quella denominata “via di fuga”, e decise di mentire per necessità (menties), dove quella necessità diventò il riuscire a causare il male minore al fratello.
Nel secondo caso, seppur William avesse ricevuto una chiamata dal fratello poco prima della sua fuga, non volle mai realmente cooperare con la polizia. Affermò anche pubblicamente che in realtà quest’ultima non lo cercò mai, quando poi invece si venne a sapere che era il contrario. Qui a mio avviso, William non agì né secondo un senso comunitario né rispetto alle sue interazioni interpersonali con il fratello. Data l’importante carica che rivestiva (senatore del Massachusetts e presidente della Massachusetts University), William decise di non dire alcunché per assicurarsi che la sua carriera politica non venisse lesa o macchiata dal denunciare di essere il fratello di un criminale e di aver saputo di certi suoi spostamenti.
La sua stessa testimonianza all’udienza in cui asserì dicendo: “Avevo la sensazione che fosse nel business dei giochi e qualsiasi altra cosa. Con me è stato vago ma alla fine era chiaro che non faceva cose che mi sarebbero piaciute” (blitzquotidiano/cronaca-mondo/james-whitey-bulger-fratello-william-2949780/) fu un chiaro esempio di come non si volesse completamente esporre sulla questione per non ledere la sua carica politica. Azione, tra le altre cose, immorale in più sensi dato proprio dal suo titolo ufficiale, che in quanto tale aveva l’obbligo morale di agire per la giusta causa. Se si vuole fare un esempio pratico di quanto avvenuto, questa sua affermazione la vedo in realtà più in linea con quanto successe a Kant con Federico II, re di Prussia. Kant, nella lettera che ricevette dal re in cui gli si intimava di smettere di trattare dei temi religiosi, rispose che “come fedele suddito di sua maestà, avrebbe mantenuto fede a questo impegno”. Si ha qui quindi l’intenzione astuta di eludere i suoi censori, affermando però qualcosa di vero. Lo stesso fa William Bulger: infatti, nel momento in cui affermò di aver sempre avuto la sensazione che il fratello facesse cose che non gli sarebbero piaciute, egli escogitò un’evasione dal dovere dire tutta la verità, senza però dover ricorrere alla menzogna. È sicuramente un caso peculiare che necessiterebbe ulteriori approfondimenti, ma vistosi già il mio dilungarmi su certi aspetti, ritengo abbastanza soddisfacente fermarmi solamente con quanto affermato sopra. Per quanto non sia pienamente d'accordo con nessuno dei due, dato che perseguire un cammino di assoluta verità lo ritengo assurdo e impraticabile, ma allo stesso modo trovo non corretto il mentire davanti a determinate situazioni, soppesate dal singolo individuo... Se dovessi però dare la mia opinione (e quindi si ritorna sul dilemma posto dal professore nel dover scegliere "tra la coca cola e l'aranciata". La mia scelta, dunque, risulterà condizionata e libera solo esteriormente, ma non interiormente, in quanto starei seguendo un istinto sensibile, come dimostra Kant che pone l'accento sulla questione sulla liberazione dal condizionamento sensibile), mi troverei più in linea con la scelta messa in atto da David Kaczynski poiché io stessa penso che in una simil situazione non riuscirei a giustificare un mio caro per un male di grande portata come quello compiuto da Ted Kaczynski. Per quanto io possa prendere in considerazione tutte le relazioni familiari o forti che siano con l'individuo in questione, penso che il mio senso etico avrebbe la
Infatti, per quel che concerne l’episodio dell’amico di S. Agostino, secondo Sandel questo può essere risolto in diversi modi (anche se uno lo considera migliore dell’altro): quello di dire una menzogna (che Sandel definisce menzogna spudorata) oppure quello di essere elusivo (dire mezze verità). L’elusività, quindi, potrebbe essere la scelta migliore, Sandel, infatti, non condanna Kant, lo vuole salvare. Se si dovesse mentire in maniera spudorata, si agirebbe in base ad un solo motivo (diritto di lealtà all’amico), lo stesso vale se si dovesse affermare l’assoluta verità (si agisce secondo il solo diritto alla verità). Se, invece, si dovesse procedere con l’elusione, si terrebbe allora conto di più motivi, quali il diritto alla lealtà verso il proprio amico e il diritto a
dire il vero. “Pur essendo la mia affermazione elusiva, è comunque tecnicamente vera”Concetto
di salvare il salvabile.
Esempio di Chidi e il suo amico professore sugli stivali rossi da cowboy. Non dà risposte concrete, si avvale dell’elusione per far credere all’altro che sia qualcosa di “bello”, quando in realtà non lo pensa. Con l’elusione Chidi non mente dicendo “non ho mai visto nulla di simile prima d’ora”, è la verità. Solo che lui lo afferma pensando a quanto siano brutti, mentre l’amico crede che gli stia facendo un complimento.
Sandel cerca di attualizzare il comportamento di Kant nei confronti del Re di Prussia e pone un esempio interessante all’interno della politica americana contemporanea: il presidente Bill Clinton fu altrettanto abile nell’eludere il prossimo, proprio come fece il filosofo tedesco con il suo sovrano. Sandel porta due casi con il presidente:
- Bill Clinton viene accusato di aver fatto uso di droghe leggere durante la sua vita studentescaInterrogato dalla stampa, rispose che lui in vita sua non aveva mai violato le leggi antidroga del suo paese. Questa fu una risposta elusiva perché si venne poi a scoprire che quando fece uso di marjuana lui si trovasse in quel periodo a Oxford, quindi lontano dal suo paese e dall’America.
- Bill Clinton accusato dello scandalo di Monica LewinskyLei era una stagista assunta alla Casa Bianca e si credeva che Bill Clinton avesse intrapreso con lei delle relazioni sessuali extraconiugali. Bill, interrogato dai giudici (per via dell’impeachment 5 ) aveva giurato in diretta televisiva che non aveva mai avuto dei rapporti sessuali con quella donna. Monica però portò poi delle prove di questi rapporti e pareva che Bill avesse quindi mentito davanti a dei giudici, ma Clinton, che chiamò a testimoniare alcuni teologi della chiesa battista di cui lui faceva parte, spiegò che la definizione che la chiesa battista dava sui rapporti sessuali era qualcosa di diverso rispetto a quello che era accaduto tra lui e Monica. Poteva quindi essere definito non rapporto sessuale, quanto sesso improprio.
Seppur Sandel porti questi esempi definibili “simpatici”, non hanno propriamente a che fare con quanto avvenne con Kant. Questo perché con il filosofo tedesco entrarono in campo due valori in conflitto tra di loro, mentre nel caso di Clinton, ciò che entrò in conflitto fu il suo interesse personale a non esser perseguito e l’esigenza di dire la verità. Non definibili quindi due imperativi categorici kantiani (dire la verità e rispettare il dovere di suddito). Per Clinton si ha da una parte un imperativo categorico (dire la verità) e dall’altro un imperativo ipotetico (se non vuoi essere perseguito legalmente, allora fai così).
5 Messa in stato d'accusa di persona che detiene un'alta carica pubblica, ritenuta colpevole di azioni illecite
nell'esercizio delle proprie funzioni, allo scopo di provocarne la destituzione.
Alasdair MacIntyre (1929 - oggi): anche lui, come Sandel, è un filoso appartenente alla scuola comunitarista. Egli, in un interessante saggio “ Truthfulness, Lies, and Moral Philosophers: What Can We Learn from Mill and Kant? ” del 1994, affronta la questione del conflitto tra il valore della verità e altri valori.
Anche MacIntyre qui, come Sandel, per affrontare l’analisi propone degli esempi di casi reali. Egli prende un caso realmente accaduto, definibile alla pari dell’esempio proposto da S. Agostino sull’assassino e ripreso poi da Kant, in cui una donna danese, che aveva come vicini alcune persone ebree (siamo in piena Seconda Guerra Mondiale), decise di prendere in affido il figlio di questi suoi vicini prima che questi venissero portati in un campo di concentramento. Alla domanda dei nazisti se quel bambino fosse suo, lei decise di mentire affermando che fosse suo figlio, salvando così la vita al piccolo bambino. La riflessione di MacIntyre parte proprio dopo questo esempio, e parte con una domanda: fu dunque la sua un’azione moralmente corretta? La risposta del filosofo a questo quesito fu sì, la sua fu un’azione moralmente corretta , in conflitto con il Kant del testo del 1797.
Riprese su quel che concerne il giudizio riflettente Kantiano
Come detto nell’introduzione, per Kant giudicare significa sussumere dei particolari sotto un universale. Riprendendo il discorso del giudizio riflettente, trattato nel testo “ La Critica del Giudizio ” del 1790, per Kant ha una struttura completamente differente rispetto al giudizio determinante. Questo parte da un caso particolare e a partire da quel particolare, il giudizio riflettente va alla ricerca dell’universale più adatto. È possibile che si vengano a creare delle situazioni di conflitto perché non si è in grado di discernere quale sia l’universale più adatto per il caso particolare in questione. Vi è anche la possibilità che si possa creare un nuovo concetto di universale per riuscire a sussumere un determinato caso.
Nel giudizio riflettente, un ruolo fondamentale lo ha l’immaginazione. Non tanto quella riproduttiva, quanto quella produttiva. Di conseguenza, per Kant, il giudizio riflettente, costituisce un qualcosa di innovativo e di conseguenza questo lo porta ad affacciarsi al romanticismo. Il caso del re di Prussia è un esempio in cui Kant applica un giudizio riflettente: non riuscendo a sussumere il caso particolare sotto un universale, ne crea uno nuovo, in cui si può eludere.
Questa questione viene ripresa da altri filosofi, tra cui Alessandro Ferrara, Paul Ricoeur e Hanna Arendt. Il primo scrive un libro intitolato “ la forza dell’esempio ” in cui il nucleo principale è appunto il giudizio riflettente di Kant. Egli, nell’introduzione, scrive che è stata una disgrazia che Kant si sia occupato del giudizio riflettente in un’opera sull’estetica, dato che questo viene confinato esclusivamente nel campo estetico. Quando invece si potrebbe applicare anche al di fuori di quel campo in quanto ha delle potenzialità straordinarie (es. campo dell’etica o del diritto etc.). Ferrara, infatti, cerca proprio di fare questo: applicare il concetto kantiano di giudizio riflettente ad altro che non faccia parte del campo estetico. All’interno del libro cita anche altri autori che prima di lui hanno cercato di fare la medesima cosa, tra cui Hanna Arendt e Paul Ricoeur.
Lei, in “ Thinking and Judging ” degli anni ’50, applica il giudizio riflettente all’ambito politico. Quindi, il giudizio politico si modella secondo la struttura del giudizio riflettente.
Paul Ricoeur, invece, in “ Le juste. tome 1 - 2 ”, applica la struttura del giudizio riflettente in ambito giuridico. Cosa che fa dopo anni di ricerca e studio in ambito giuridico.
Quindi, il giudizio riflettente è, citando Hartmann: la decisione non è la mera concretizzazione per accidens dell’universale dato (la regola), ma è un ente con delle caratteristiche proprie e innovative, con una ricchezza non presente nel semplice universale. Questa dimensione proviene
speranza, si aggrappa alle reti del viadotto, affermando che pure lui si sarebbe tolto la vita. Lo psichiatra Massimo Di Giannantonio, giunto sul posto insieme alla polizia, ha cercato di fare da intermediario e per non far commettere il suicidio all’uomo ha cercato di convincerlo attraverso la menzogna. La conversazione è andata avanti per quasi sette ore, ma alla fine l’uomo si è comunque lanciato, togliendosi la vita.
La scelta dello psichiatra di mentire all’uomo risiede i un ultimo tentativo di fargli cambiare idea sulla decisione di suicidarsi. Infatti, Di Giannantonio affermò a Fausto che in realtà sua moglie era sopravvissuta al volo di quaranta metri e che i medici avevano detto che avrebbe avuto buone possibilità di rimettersi totalmente. Sperava che con quell’affermazione, l’uomo potesse cambiare idea e ritrovare un po’ di speranza nella vita, dato che dopo aver commesso quei delitti non aveva più alcunché a cui aggrapparsi.
Il caso del paziente di Recalcati
Recalcati, psicologo molto illustre in Italia, racconta di un episodio all’interno di un suo libro molto interessante sulla questione “veridicità” delle cartelle cliniche ai pazienti. Dato che questo paziente sarebbe potuto rimanere parecchio destabilizzato mentalmente dall’analisi effettuata, si optò di non mentire, ma bensì di tacere la verità. La vita del paziente era stata costruita intorno ad una bugia; quindi, venire a sapere della verità all’improvviso lo avrebbe potuto fare impazzire. Lo stesso lo si può trovare all’interno del film “ American Beauty ” in cui si ha il sergente che ha basato tutta la sua vita nell’odio profondo verso la comunità gay, per poi scoprire alla fine che è proprio quest’ultimo a farne parte per primo. Lo shock però ricevuto dal protagonista (Kevin Spacey) che glielo fa scoprire lo porta ad impazzire completamente e a ucciderlo. Sono, dunque, casi in cui se il paziente stesso si ritrovasse in uno stato in cui venire a conoscenza della verità lo porterebbe ad impazzire, è meglio procedere con una menzogna, e quindi tacere la verità, per far sì che il suo benessere continui a persistere.
I dilemmi morali
I dilemmi morali si costruiscono sul giudizio riflettente, ovvero quando da un caso particolare bisogna trovare l’universale più adatto o crearlo. Questi dilemmi si vengono a creare dal momento in cui si hanno delle norme etiche/giuridiche in conflitto. Avendo difficoltà nell’interpretare il caso bisogna riflettere bene su come agire.
Il caso del testamento biologico
Il testamento biologico è una volontà scritta prima di non avere più coscienza e la facoltà di decidere. Se non vi fossero stati delle volontà scritte, ci si sarebbe rifatti solitamente ai testimoni diretti della persona presa in causa (parenti/amici/congiunti). Ad un convegno, un medico portò in causa un caso che trattava proprio di come comportarsi in caso di mancanza di un testamento biologico: un paziente si trova allo stato vegetativo e il medico, in mancanza delle volontà, chiede alle persone vicine al paziente quali fossero state le volontà di quest’ultimo.
- Gli amici del paziente affermano che si era a lungo parlato di una situazione del genere in cui se mai si fossero ritrovati in una situazione del genere, la persona in causa avrebbe voluto morire piuttosto che vivere attaccato ad una macchina.
- La moglie del paziente, sentendo quanto riferito al medico, afferma l’opposto. Dice che suo marito, davanti ai suoi amici, aveva la tendenza a fare lo sbruffone, mentre con lei riusciva a confidarsi realmente. Una sera le aveva confessato che avrebbe accettato qualsiasi cosa pur di non morire, il suo desiderio era vivere il più a lungo possibile.
Il medico, trovandosi con due affermazioni contrastanti, decide di tornare dagli amici e riferirgli quanto detto dalla moglie. Questi gli confessano che ne erano già al corrente, dato che il loro amico gli aveva detto che piuttosto che far preoccupare la moglie le avrebbe mentito, dato che la moglie stessa non avrebbe voluto perderlo per una malattia. Se fossimo stati noi nei panni del medico, come avremmo deciso di agire? Avremmo staccato la spina ascoltando le testimonianze degli amici, o avremmo ascoltato la moglie e avremmo fatto vivere più a lungo il marito, seppur in uno stato vegetativo?
Il caso di Terri Schiavo (altro caso con testimonianze contrarie)
La vicenda si svolge negli Stati Uniti e tratta di una donna che soffre di disturbi alimentari forti. Un giorno, a causa di questi, ha un attacco di ipossia e finisce in uno stato vegetativo. In ospedale comincia una cura con sondino per l’alimentazione forzata. Quando ha avuto l’attacco non viveva più con il marito, ma era tornata nella casa dei genitori. Dato che si erano lasciati, il marito si era rifatto un’altra famiglia, ma poiché non avevano mai divorziato legalmente, risultavano ancora legati dal matrimonio. I medici, data la situazione e in assenza di una testimonianza scritta della paziente, si sono rivolti sia ai genitori sia all’ex marito. I primi comunicarono che la figlia avesse il desiderio di continuare a vivere e che rispondeva bene agli stimoli fisici, l’ex invece dice che lei non voleva affatto continuare a vivere in quel modo e che avrebbe preferito farla finita, piuttosto che continuare così. La testimonianza incongruente delle due parti fa nascere un processo giudiziario sul destino della donna.
Stante l'assenza di una legge sul testamento biologico, durante la settimana del 24 gennaio 2000 si tenne un'udienza con lo scopo di determinare le volontà della Schiavo circa le procedure volte a prolungare la vita di un malato. Furono ascoltate le testimonianze di diciotto testi circa le sue condizioni mediche e le sue volontà riguardo ai trattamenti medici che desiderava ricevere in caso di malattia che le impedisse di esprimere il proprio consenso alle cure. Michael affermò che la moglie non avrebbe voluto essere tenuta in vita da una macchina senza alcuna speranza di recupero. I genitori della donna al contrario asserirono che la Schiavo apparteneva alla Chiesa Cattolica Romana e che non avrebbe mai violato gli insegnamenti della Chiesa sull'eutanasia rifiutando l'alimentazione e l'idratazione forzata. Il giudice George Greer emise l'ordine che concedeva l'autorizzazione ad interrompere il supporto vitale della Schiavo nel febbraio 2000. Nella sua decisione, la corte trovò che la Schiavo si trovava in uno stato vegetativo permanente e che aveva rilasciato dichiarazione orale che avrebbe desiderato che il tubo per l'alimentazione forzata le venisse rimosso. Questa sentenza venne confermata dal Secondo Distretto della Corte d'Appello della Florida (o "secondo DCA") e divenne nota presso la corte come "Schiavo I" nelle successive sentenze. 6
La vicenda si conclude il 31 marzo 2005 quando, nonostante i continui appelli dei genitori, il tubo le venne rimosso e Terri morì. Secondo il loro portavoce, ai genitori della Schiavo non fu permesso di entrare nella sua stanza durante le sue ultime ore. Quando fu loro detto che la figlia era morta, la coppia si recò in tutta fretta all'hospice. La famiglia di Terri non ebbe il permesso di accedere alla stanza della defunta finché il marito non ne fu uscito.
Il caso di Eluana Englaro (testimonianze in sintonia)
Dopo un incidente stradale, la giovane donna Eluana Englaro finisce in uno stato vegetativo e come Terri comincia una cura con sondino per l’alimentazione forzata. Poiché qualche tempo prima, dopo che un suo amico aveva subito le stesse sorti, Eluana aveva affermato che se mai fosse finita in uno stato simile avrebbe preferito farla finita, le testimonianze coinvolte nel caso si ritrovarono tutte d’accordo sul permetterle di farla finita nonostante non avesse più le facoltà per ammetterlo lei
6 it.wikipedia/wiki/Terri_Schiavo#Le_volont%C3%A0_della_Schiavo
volerla aiutare. Chiede allora al medico se può mentire alla sorella dicendole che lui non era compatibile e che non c’erano altri donatori.
Il caso di Rovigo
Una ragazza ha problemi alimentari pesanti, scappa dalla TSO e muore per denutrizione. Questo caso è diverso perché si prende in causa le facoltà mentali della paziente, essendo affetta da una malattia psichiatrica che le impediva di intendere e di volere. Di conseguenza, la sua volontà di non essere curata non viene presa in considerazione dai medici, la quale hanno l’obbligo morale di salvarla. Anche se si è maggiorenni e si potrebbe decidere di rifiutare le cure, se non si è in grado di intendere e di volere e non ci sono volontà scritte, scatta l’obbligo alle cure.
I certificati Ad usum delphini
Questo termine latino viene inteso in senso dispregiativo per denotare la manipolazione di informazioni o documenti a vantaggio di un dato soggetto. Nel campo medico, questo è di uso comune nei documenti clinici e referti di esami medici relativi a un paziente, le cui gravi condizioni fisiche o psichiche ne sconsigliassero la comunicazione diretta: i documenti e i referti modificati a uso del paziente riportavano la dicitura "copia a.u.". Va però detto che oggigiorno la redazione di documenti clinici a.u. è vietata in molti Paesi (tra cui l’Italia).
La dicitura ad usum delphini la si può ritrovare anche all’interno dell’opera “ Baci scagliati altrove ” di Sandro Veronese. Qui, l’autore narra delle fasi terminali della malattia del padre. Veronesi, che si occupava di assisterlo durante queste fasi, decide di ingannarlo dicendogli che la malattia non era poi così grave e che avrebbe potuto rimettersi presto. Per rendere la sua menzogna ancor più plausibile, chiese al medico referente di falsificare i documenti a cui il padre aveva accesso. Tali documenti riportavano la dicitura copia a.u. cosicché qualunque altro medico avesse potuto sapere che quella si trattava di una copia falsa per il paziente.
La cosa interessante è che Veronesi parla della vicenda nel libro rifacendosi all’uso della seconda persona singolare; quindi, come se cercasse di estraniarsi dalla vicenda, una sottospecie di spersonalizzazione. Imposta il romanzo come se fosse qualcun altro a rivolgersi a lui per parlare della vicenda.
Volgendo lo sguardo alle culture asiatiche e africane, la possibilità di mentire in campo medico è molto più radicata rispetto al resto del mondo. In un articolo, uscito per la rivista “ Social science medicine ”, di Susan Long intitolato “ Curable cancer and fatal ulcers, attitudes towards cancer in Japan ” si affronta, per l’appunto, questa tematica: in Giappone, quando un paziente è terminale non gli si dice che ha un tumore, ma che in realtà ha una forte ulcera. Mentre, quando il tumore viene scoperto per tempo e preso in cura nelle prime fasi, il paziente può essere informato circa la malattia.
In un altro articolo intitolato “ Serving the emperor without asking, critical care ethics in Japan ” si affronta lo stesso principio, in cui però viene aggiunto che il paziente malato viene elevato, per così dire, a figura di imperatore sia dai medici che dai parenti. Questo perché, come in antichità i ministri dell’imperatore non erano soliti disturbare l’imperatore con fattori di poco conto (cose pratiche), così i parenti non dovevano disturbare il paziente. Le decisioni spettavano a loro con il sussidio dei medici.
Soprattutto in Giappone, i medici oltre ad avere un profondo rispetto per i propri pazienti, lasciano che la mediazione medico-paziente (quindi cosa rivelargli e come) sia dettata dai parenti sani che
sanno cos’è meglio per il paziente. Secondo loro, la verità non va “sbattuta in faccia”, ma va rivelata nel tempo, a piccoli bocconi.
La difesa della verità da parte di David Thomasma
Negli ultimi tempi, i medici tendono a preferire il dire la verità, piuttosto che al tacere la diagnosi, ai propri pazienti. Le ragioni per questo sono innumerevoli, tra cui la presenza di un’evoluzione a partire dal codice di Norimberga del 1947, il quale prescrive il rispetto all’autonomia e autodeterminazione del paziente; per poi arrivare alle variazioni della dichiarazione di Helsinki dell’associazione medica mondiale sulla sperimentazione umana; per finire con varie normative approvate da vari Paesi (tra cui l’Italia che nel 1978 vara la legge di riforma del sistema sanitario nazionale) sul consenso informato.
Poiché gli approcci etici in campo medico sono cambiati per via delle leggi, si vengono a formare anche nuovi pensieri filosofici di nuovi teorici, tra cui David Thomasma, bioeticista molto noto. Thomasma dedica a questa questione un saggio, prendendo di petto anche Lipkin (: il paziente non è in grado di capire la diagnosi e può interpretarla sulla base di conoscenze pregresse, quindi si può ricorrere alla menzogna). Thomasma rifiuta questo modo di pensare e critica apertamente Lipkin in un articolo intitolato “ Telling the truth to patients: a clinical ethics exploration ” del 1994. All’interno di questo, Thomasma afferma di non ritenere vero/giusto che la mancanza di conoscenze tecniche da parte del paziente sia una giustificazione valida al punto da non dovergli fornire adeguate informazioni. Prosegue dicendo che è sicuramente lecito affermare che l’esperto (in questo caso il medico) abbia sicuramente più competenze del paziente in molti campi, ma che, nonostante ciò, egli deve quantomeno cercare di comunicargli il vero, anche se in termini generali. Inoltre, i trattamenti medici richiedono la collaborazione attiva del paziente che, se non informato della malattia, potrebbe rifiutarsi di fare trattamenti più impegnativi.
La condizione in cui, invece, il paziente è a conoscenza di tutto, seppur anche in termini generali, porta quest’ultimo a prendere decisioni libere, autentiche e informate. Inoltre, il paziente potrebbe ritrovarsi a dover avere delle scelte importanti da fare, le quali potrebbero essere compromesse nel caso in cui gli fosse stata comunicata una notizia falsa.
Nonostante Thomasma abbia aspramente criticato Lipkin e le sue teorie, alla fine pone anche lui delle eccezioni in cui è lecito mentire. L’esempio che fornisce è molto simile a quello della madre morente che chiede del figlio (in carcere) fornito da Feyerabend, dato che non si andrebbe a compromettere in alcun modo la diagnosi già fornita al paziente, è lecito mentire circa terzi casi in cui questi porterebbero un peggioramento dello stesso paziente. Di conseguenza, Thomasma difende la verità, ma il suo attaccamento alla pratica clinica lo porta comunque ad essere meno rigido rispetto a Kant.
La verità nel pensiero di Aristotele
Fino a poco fa ci siamo principalmente soffermati sulla questione del “dilemma etico” sul dire o meno la verità. Tuttavia, ancora non è chiara la definizione del concetto di verità, che sta a cavallo tra la filosofia morale e quella teoretica 9.
Aristotele (384 a. - 322 a.): fu il primo a teorizzare su questa importante questione e lo fa in due testi. Il primo è “Etica Nicomachea VI libro” del IV secolo e il secondo è “Metafisica IX volume e X volume” del IV secolo.
9 Filosofia teoretica (o la teoretica s. ), la filosofia della conoscenza, ed anche la teoria generale della realtà da un
punto di vista astratto, in antitesi sia alla filosofia morale sia alla storia della filosofia.
leggiamo nei libri. Due persone con dei retroterra culturali (background) diversi, leggeranno un libro in maniera diversa. Anche la stessa persona, leggendo lo stesso libro dopo anni, si ritroverebbe a leggere
qualcosa di nuovo (per via dei cambiamenti e delle esperienze vissute).Questa è la conoscenza
dall’interno in cui il soggetto è coinvolto in campo etico.
Passando invece al suo altro scritto “Metafisica volume IX e X”, Aristotele qui distingue la verità opposta al falso e la verità opposta all’ignoranza.
Verità opposta al falso: concetto di verità inteso come adeguazione tra giudizio/pensiero e realtà. “ È nel vero chi crede che sia unito ciò che è unito e che sia diviso ciò che è diviso ”. Se si crede che il tavolo sia bianco e che quindi il tavolo sia unito alla sua bianchezza, si è nel vero. C’è un’adeguazione tra il pensiero e l’oggetto preso in causa. Il contrario è falso (il tavolo è nero nonostante sia unito alla sua bianchezza).
Verità opposta all’ignoranza: concetto di verità in cui si ha il contatto diretto con l’oggetto in causa. Chi non è a contatto con esso, non si troverà nel falso, ma nell’ignoranza. Chi ha invece contatto diretto con esso, sarà di fronte allo svelamento della verità (aletheia). Uscire dal nascondimento per svelare la verità.
La verità come aletheia: Heidegger (Essere e Tempo, Sull’essenza della verità) e
Gadamer (Verità e metodo)
Martin Heidegger (1889 - 1976): riprende la suddivisione del concetto di verità di Aristotele e lo fa nei suoi libri “ Essere e Tempo ” del 1927 e “ Sull’essenza della Verità ” del 1930. In questi testi afferma che un’idea del senso autentico della verità è presente già nei più antichi testi greci (citazione diretta a “Metafisica” di Aristotele). La verità come disvelamento è perfettamente funzionale all’ermeneutica Heideggeriana e anche a quella Gadameriana. Heidegger polemizza il positivismo, con l’idea che possano esistere dei dati oggettivi. Per lui ogni dato è sempre avvolto da un’interpretazione, non esiste il dato puro, questo è sempre interpretato.
Hans-Georg Gadamer (1900 - 2002): in “ Verità e Metodo ” del 1960 sposa il concetto di verità proposto da Aristotele. Anzi, il titolo del romanzo è voluto: infatti, contrappone la verità nel senso aletheia alla verità scientifica nel senso metodico (distanziazione alienante). Una cosa è il metodo, un’altra cosa è la verità, e la verità è appunto aletheia. Egli afferma inoltre che l’arte è fonte di verità, da questo punto di vista, perché l’arte sconvolge interpretazioni sclerotizzate stabili: si vede qualcosa attraverso gli occhi dell’artista = metafora poetica che consta due significati che solitamente sono estranei l’uno all’altro. Dunque, dall’accostamento di due significati, apparentemente estranei, scaturisce un nuovo significato, una nuova verità. Stessa realtà interpretata in maniera diversa: uno stesso paesaggio può venir descritto in modi diversi, non è che una descrizione sia più vera dell’altra. Semplicemente, chi non ha visto da sé quel paesaggio, ignora quale sia la verità. Quindi, la verità intesa come aletheia è la verità come uscita dall’ignoranza.
Questa visione della verità, teorizzata a priori da Aristotele e ripresa poi dai filosofi dell’ermeneutica, ha avuto implicazioni anche nello studio della letteratura, nel diritto e nella bioetica, dato che ha dato nuovi spunti di interpretazione.
La verità di un testo
Il concetto di verità come scoperta (aletheia) ha avuto un impatto molto significativo nel campo dell’esegesi testuale (ermeneutica del testo). Infatti, un testo può essere approcciato utilizzando la
concezione della verità come adeguazione di un reale già dato (concetto discusso da Aristotele nella Metafisica); oppure utilizzando la concezione della verità come disvelamento e/o scoperta.
Se si prende d’esempio un brano della Divina Commedia, la domanda che ci si pone è: qual è il suo vero significato?
La concezione della verità come adeguazione di un reale già dato affermerebbe che il vero significato di quel testo è dato dall’intenzione reale di Dante. Per capirne il vero significato, bisogna cercare (attraverso strumenti di tipo filologico) di mostrare quale fosse il significato che Dante stesso voleva attribuirgli.
La concezione della verità come disvelamento , invece, non cerca una verità dietro il testo, risalendo quindi all’intenzione dell’autore, ma cerca la verità davanti al testo. Quindi si chiede quale sia il significato che si squaderna davanti al testo (diverse interpretazioni date nelle varie epoche da chi ha letto il testo). Per questo modo di intendere un testo si rimanda al pensiero di Ricoeur quando affermava che egli era uno dei vari lettori della sua opera, è un interprete. La sua interpretazione non vale più di quella degli altri solo perché l’opera è stata scritta da lui.
Quando si parla di analizzare e interpretare la veridicità di fondo di un testo della costituzione, come bisogna procedere? Secondo il primo approccio, per capire il vero senso di un determinato articolo all’interno della costituzione, bisogna risalire all’intenzione dei padri costituenti. Per il secondo approccio, invece, l’intenzione prima non è più importante, perché la costituzione ha valore per tutte le generazioni e questo valore cambia di epoca in epoca.
In Italia, l’articolo 32 secondo comma della Costituzione, introdotto nel 1946, dove Aldo Moro, pensando alle sterilizzazioni obbligatorie, decide di vietare i trattamenti sanitari di tipo coercitivo; è
oggi impiegato nel campo di fine-vita (nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario)
caso Welby. Dato che s’intende la verità della costituzione come verità euristica, che va, quindi, alla scoperta di nuovi territori a cui si può applicare un determinato caso, nonostante l’articolo 32 non fosse stato creato per le questioni di fine-vita, può comunque essere applicato.
Il cristianesimo e la nozione relazionale di verità
Questa nozione è possibile notarla facendo riferimento al Vangelo di Giovanni (18 v. 37-38), in cui ci sono dei passi estremamente interessanti, come il dialogo tra Ponzio Pilato e Gesù.
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Gli dice Pilato: «Che cos'è la verità?». E detto questo uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui nessuna colpa. 13
Essendo Pilato uno scettico, nonostante pronunci una domanda cruciale, il suo quesito diventa qualcosa di diverso. Egli pone la domanda in forma ironica e disincarnata (domanda retorica). Egli lascia intendere che la verità non esiste, è un’illusione. Non si aspetta una vera risposta da Gesù. Infatti, il dialogo s’interrompe bruscamente, Pilato non aspetta neppure una sua risposta, in quanto essendo una domanda retorica, la risposta non gli interessa. Nemmeno Gesù vuole rispondere, perché comprende subito che la domanda postagli sia in forma retorica e soprattutto provocatoria.
Gesù comunque dà una risposta al concetto di verità, ben prima che Pilato glielo chieda in forma provocatoria. In un passo del Vangelo (Giovanni 14 v. 6), Gesù si rivolge al discepolo Tommaso e gli dice:
13 laparola/testo.php?riferimento=Giovanni+18%2C37-38&versioni[]=C.E.
Bioetica Riassunto - Turoldo - 21-22 - unive
Corso: Bioetica Sp. (FM0030)
Università: Università Ca' Foscari Venezia
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