La
pandemia del 1918-19, passata alla storia come spagnola, è stata
giudicata uno dei maggiori disastri della storia dell’umanità. In due
anni interessò il nostro pianeta in tre ondate successive e uccise
circa 40-50 milioni di persone. I primi casi di questa nuova patologia
furono nel marzo 1918, nel corso della prima guerra mondiale, tra le
truppe americane di stanza a Fort Riley, nel Kansas nordorientale, per
poi rapidamente dar luogo alla prima ondata pandemica; la seconda
ondata si manifestò tra il settembre e il novembre 1918 e in molte
regioni un’altra grave ondata influenzale si abbatté all’inizio del
1919. Nel 1931 l’americano Richard Shope (1901-1966) dimostrò che
l’infezione poteva essere trasmessa fra i maiali usando muco estratto
dalle vie respiratorie di animali malati, filtrato per eliminare
eventuali batteri presenti. Si trattava dunque di un virus. Frattanto
l’inglese Hugo Selter (1878-1952), avendo iniettato a se stesso e ad un
suo assistente la secrezione nasale, opportunamente filtrata, di
ammalati di influenza e avendo entrambi contratto questa patologia,
ipotizzò, a questo modo, la presenza di un virus anche nell’influenza
umana. Infine, nel 1933,Wilson Smith (1897-1965), Christopher Howard
Andrewes (1896-1988) e Patrick Playfair Laidlaw (1881- 1940), che
lavoravano presso il National Institute for Medical Research di Londra
dimostrarono in maniera definitiva che l’agente causale dell’influenza
umana era un virus. Alla fine del 1919, la più letale epidemia
influenzale della storia moderna sparì con la stessa velocità con la
quale era comparsa.Nel novembre 1918, nella
penisola di Seward in Alaska, in un villaggio di pescatori Inuit, oggi
chiamato Brevig Mission, l’influenza aveva ucciso 72 persone (l’85%
della popolazione) e i loro corpi erano stati sepolti in una fossa
comune ricavata in territorio ove il suolo e permanentemente ghiacciato
(permafrost), si proposero di recuperare da quei cadaveri il virus
influenzale così da poterlo studiare. |